PSICOTERAPIA DELLA GESTALT

“Io sono io. Tu sei tu. Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.

Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. 

Io faccio la mia cosa.

Tu fai la tua cosa.

Se ci incontreremo sarà bellissimo;

altrimenti non ci sarà stato niente da fare.”

È di Perls quella che viene chiamata la “preghiera della Gestalt”, dove, con poche parole riassume quanto dirò di seguito:

La terapia della Gestalt è stata introdotta negli anni ‘50 da Frederick Perls all’interno del movimento della psicologia umanistica fondata da Abraham Maslow.

I fondatori della terapia della Gestalt erano tutti culturalmente o politicamente degli “outsiders”. Alcuni erano ebrei, altri emigranti, inclusi Fritz e Laura Perls, scappati dalle persecuzioni in Europa. Altri ancora erano gay. Gary Yontelf scrive che il loro desiderio iniziale era quello di sviluppare una “teoria del processo” che potesse essere di supporto e potesse incoraggiare le persone ad assecondare il proprio modo di essere, anche se questo era in contrasto con i valori dell’epoca e del contesto.

Le correnti della psicologia “forti” in quegli anni erano la psicoanalisi nata con Freud e il comportamentismo nato con Pavlov. La psicologia umanistica si contrapponeva all’orientamento distaccato e non coinvolto, chiamato da Perls “aboutism” e dall’orientamento rigidamente doveristico, lo “shouldism” degli altri approcci, mettendo in evidenza gli atteggiamenti e le emozioni come modi di essere dell’individuo che non tende alla perfezione ma che accetta i suoi limiti e le sue difficoltà, che si accetta per quello che è.

La psicoterapia della Gestalt viene ufficialmente alla luce a New York nel 1951 grazie a Fritz Perls, sua moglie Laura, Goodman, Hefferline, Shapiro, Weiss e successivamente grazie al contributo di Fromm ed altri.

Le sue radici affondano in approcci teorici, psicologici, filosofici e spirituali. Un importante contributo viene dalla psicologia della forma e dalla Fenomenologia che sostengono la relatività della percezione. Gli uomini non vedono e percepiscono le cose per come sono, ma ne colgono gli aspetti e le caratteristiche in base ai loro bisogni interni. La realtà non è unica per tutti e oggettiva, ma è percepita e ordinata secondo i bisogni interni di ogni individuo che approccia ad essa, facendone, quindi, una realtà soggettiva. Secondo gli studi degli psicologi della forma, nel processo percettivo l’individuo sente la necessità di chiudere immediatamente il proprio percepito, di “chiudere la forma” con qualcosa a lui familiare per placare la sua ansia per le “gestalt aperte”.

“Gestalt” è una parola tedesca che significa “totalità”, “struttura”, “configurazione”, “insieme”. Noi siamo una “gestalt” perché siamo fatti di pensieri, emozioni, sensazioni e tanto altro. Abbiamo, inoltre, nel nostro interno, altre “gestalt”, configurazioni e sotto-aspetti della nostra personalità. Molte di queste si presentano come “gestalt aperte” e si manifestano come “sintomi”, comportamenti, emozioni, sogni, pensieri fissi che richiedono una “chiusura”.

La Fenomenologia considera più importante descrivere che spiegare, si interroga sul “come” prima del “perché” accade qualcosa. Questo implica attenzione al proprio vissuto e una presa di coscienza del proprio corpo e del proprio sentire. Il termine fenomenologia deriva dal greco “fainomei”, che vuol dire ciò che appare, ciò che si manifesta. Per accogliere quello che si manifesta, nel modo in cui lo fa, è necessario assumere una posizione contemplativa, di “indifferenza creativa”, dove “posso vedere le cose per quelle che sono”. Ma è necessario anche “sospendere il giudizio” ( epochè ), essere, cioè, imparziali.

Anche l’Esistenzialismo ha un’influenza significativa ponendo al centro dell’esperienza l’individuo, con i suoi vissuti, le sue emozioni, il suo modo di vivere e vedere il mondo. E la sua “responsabilità” nel fare scelte e decidere della propria vita per fare qualcosa di cui solo lui è in grado: soddisfare i suoi bisogni. Martin Buber, esistenzialista ebreo sottolinea l’importanza del dialogo e della relazione. L’uomo è come una fitta trama di rapporti e relazioni . Egli trova il suo “io autentico” e la sua realizzazione solo attraverso la relazione e il con il confronto con l’altro.

Anche l’Olismo rappresenta un’importante “radice” della psicoterapia della Gestalt. È una parola greca che significa “tutto”, “intero”. Noi siamo un tutto inscindibile, anima, mente, corpo, emozioni sono un tutto inscindibile. Da terapeuti credere in questo vuol dire avvicinarsi ad un paziente non identificandolo nel suo “sintomo”, ma considerarlo in tutte le sue parti, prestando attenzione alla sua voce, a come respira, si muove, alla sua postura, al suo linguaggio, alle sue emozioni.

La “Teoria del Campo” dello psicologo fenomenologo Kurt Lewin mette in evidenza l’interdipendenza tra l’individuo e l’ambiente. Possiamo capire un individuo se teniamo anche del contesto totale del quale fa parte. Nel contesto (campo) ci sono forze di attrazione/repulsione e la persona si muove all’interno del suo mondo secondo queste dinamiche.

Secondo quanto detto fino ad ora, è, a mio avviso, facile comprendere che la terapia della Gestalt non si proponga di raggiungere un ideale né tanto meno “guarire” un paziente dai sintomi. Si auspica, invece, di accompagnarlo in un processo di crescita partendo dall’accettazione di quello che è. Come sostiene Sergio Mazzei, da terapeuti possiamo «aiutare la persona a conoscere la propria gestalt, la propria forma, la propria struttura, la propria allucinazione affinché possa imparare a lavorare con se stesso per integrare le proprie polarità, per integrare le parti in divisione, le parti rifiutate, in una parola “a crescere”».

«La psicoterapia della Gestalt è orientata al risveglio dell’individuo e non alla sua consolazione». Tale “risveglio” ha a che fare con l’“awareness”, con la consapevolezza. Si è consapevoli nella misura in cui si è disposti ad osservarsi, ad “ascoltarsi”, tenendo conto di quello che si prova e di cui si ha bisogno in una posizione di indifferenza creativa, dell’ “epochè”, nella sospensione del giudizio.

Tutto questo, seppur esposto semplicemente e di facile comprensione, nasconde le sue insidie.

«La nostra tecnica per sviluppare l’autoconsapevolezza consiste nell’estendere in ogni direzione le aree della attuale consapevolezza. Per riuscire in questo è necessario portare alla vostra attenzione le vostre esperienze che preferireste evitare e non riconoscerle come vostre. In seguito verrà lentamente alla luce l’intero sistema dei blocchi su cui si basa la vostra abitudine, l’abituale strategia di resistenza alla consapevolezza». (F.Perls, R. Hefferline, P. Goodman, 1951, pag. 91)29

Con il termine “aboutism” Perls si riferiva alla tendenza di noi umani a non affrontare direttamente alcuni aspetti della nostra vita, specie quelli che ci procurano più ansia, dolore, rabbia, ma di girargli intorno. Anche Freud si è occupato dell’attitudine evitativa, parlando dei meccanismi di difesa: negazione, rimozione, spostamento, etc …. Il lavoro sulla consapevolezza si propone il superamento del meccanismo evitativo. Scrive Perls  «l’evitamento è la caratteristica principale della nevrosi ed è ovvio che la concentrazione è il suo giusto apposto …. Dobbiamo affrontare i fatti. La psicoterapia significa aiutare il paziente ad ascoltare quei fatti che nasconde a se stesso», e ancora «Spesso è necessario passare attraverso l’inferno e non “girargli intorno”».

Essere consapevoli comporta l’assunzione di un altro aspetto fondamentale della terapia della Gestalt, la responsabilità. Ascoltando i propri bisogni, le proprie emozioni, l’individuo può scegliere il modo in cui “rispondere” alle situazioni, abbandonando le regole e i doveri imposti da altri per lasciare il posto a quello che ritiene meglio per sé. Il significato originario del termine è proprio “abilità a rispondere”, a non subordinarsi sempre a qualcun altro, a quello che pensa la gente, a quello che vorrebbero noi facessimo, ma a prendere in mano la propria vita da protagonisti.

Mazzei scrive che conseguenza della consapevolezza e della responsabilità è “il cambiamento del comportamento” disfunzionale. Quello che è più importante è il modo in cui siamo in contatto con noi stessi e con il mondo e che il nostro obiettivo è rendere tale contatto più funzionale e così meno difficile e doloroso.